PUNTREMAL Prima parte
di Libero Venturi - domenica 06 ottobre 2019 ore 10:15
Prima parte
La leggenda all’origine del nome narra che nell’alto Medioevo un clerico, impressionato dal tremolio dell’antico e oggi scomparso ponte di legno sul Magra, sopra cui stava transitando, abbia annotato: Pons tremulus. E quindi, Pontremoli. In realtà l’etimo è più complesso. Comunque anche dalle nostre parti un nobile di altri tempi, scarrozzando su di un ponte e chiesto dove si trovassero, avuta risposta che trattavasi nientemeno che di Pons Sacci, sibilò al vetturino: lega i bauli e trotta. Chissà perché. Dice che la fama vola, come la maldicenza. Meglio Puntremal, allora.
Puntremal perché sono in Toscana, però non parlano toscano, ma un dialetto misto di ligure ed emiliano: se scendi al mare sei quasi in Liguria, se passi la Cisa sei quasi a Parma. Gastone Venturelli, un professore studioso di tradizioni popolari con cui si organizzavano in gioventù rassegne del Maggio e del Bruscello, era di quell’area, tra Garfagnana e Lunigiana e diceva che non era Toscana, ma Apuania. Una regione scomparsa tra le Alpi Apuane e il mare. E lo diceva quando Bossi era ancora un democristiano.
Pontremoli e la sua area in effetti corrispondevano all’antica Apua dei liguri: marinai e montanari che nemmeno i protervi romani riuscirono mai a dominare del tutto. Per questo parlano diverso da noi. Intercalano con Gee, che è una contrazione di Gèsu e rilanciano il discorso con: e alora! Corado va con una sola “erre”, in compenso Beatricce con due “ci” e Michéla si pronuncia con la “e” stretta. Per dire bietola dicono biedla e barbodla per barbotola, che è una torta che fanno con i fiori di zucca, molto buona. Come le torte d’erbi, di erba, un mangiare da poveri di un tempo, ora rinomato, prelibato e caro, se lo compri alla bottega. Sfornano i ramaini: un po’ come il nostro pane con lo zibibbo, che però non si fa quasi più. E un pane detto crescente, salato perché non erano sotto il Granducato fiorentino dal pane sciocco, quello che mancava a Dante in esilio. Poi fanno il catagnaccio con il ramerino, oltre che con l’uvetta. Gastone ce l’offrì una sera a cena in un paesino perduto tra i castagni della Garfagnana e i meandri della memoria, di cui infatti non ricordo il nome. Si era davanti al fuoco con la sua anziana madre e avrei finito la teglia se non fosse stato per l’educazione, ma mi ci rifeci diverse volte, fingendo di disquisire sulla diversità di usi e costumi dell’utilizzo della farina di castagne. Che da quelle parti, negli anni buoni, dura fino in estate e ti servono anche in forma di frittella tra gli antipasti. Cosa vi portiamo di dolce? Ci ha chiesto l’oste del ristorante sotto gli alberi, sulla strada della Cisa. Ci porti le frittelle degli antipasti, abbiamo risposto. Il professor Venturelli è tanto che è scomparso, preceduto dalla madre e dalla ricetta di quel castagnaccio. Le persone e le cose migliori si perdono. Il Maggio ancora lo cantano a Buti.
Pontremoli è attraversata dal Verde e dal Magra e c’è chi li confonde: il Verde attraversa la città passando sotto il mitico ponte in pietra della Crësa -che si pronuncia con una “e” strana- mentre il Magra scorre dietro. Poi i due fiumi si confondono davvero, unendosi poco più in là del centro del paese e sul ponte Stemma, vicino alla confluenza, ci sono tutti i lucchetti chiusi e arrugginiti degli innamorati. Chissà se anche il loro amore è durato o si è arrugginito e chissà se è un bene arrugginire insieme. La vita è fatta di oneri, onori e storie complicate.
In quell’esteso bacino fluviale si formano i “laghi”, che sono slarghi, tonfi d’acqua più profonda, dove la corrente ozia un poco, s’inverdisce, per ripartire verso valle, impetuosa e chiara tra le pietre levigate, bianche e grigie, del greto. I laghi hanno nomi vari: il lago del palo, il lago della frasca, il lago del cazzo. Perso nella vegetazione boschiva ai margini del letto del torrente, un po’ imbarazzato, chiesi informazione a dei giovani: scusate, da queste parti c’è un lago... Ah, il lago del cazzo, mi risposero. Più avanti, lungo il sentiero, laggiù, in fondo a quegli alberi. Perché si chiama così? Perché è un lago del cazzo. Stupido io a chiederlo. Il lago della frasca invece è dietro l’ospedale, fiancheggiando il corso del Magra, lungo il sentiero, si trova subito, ci fanno le grigliate e il bagno. C’è una vecchia mora, che non è una donna anziana e bruna, ma un muro di contenimento e sbarramento, credo. Mi sono arrampicato lungo le pietre scure e diroccate, saranno stati cinque metri e mi sono buttato giù, nell’acqua fredda. Uno schiaffo salutare quanto una botta di vita.
Ma se vuoi il lago più bello, segui la Magriola da San Terenziano nella frazione di Mignegno -buffo a pronunciarsi- lungo lo stradello, con l’auto. E spera che non venga nessuno in senso contrario, se no torni al primo slargo che c’è, a marcia indietro. A saperla fare. Insomma, vai e trovi un campo sportivo abbandonato, da dove prosegui, risalendo a piedi il letto del torrente, finché arrivi ad uno sbarramento delle acque che crea una doppia cascata. E lì t’immergi in uno scenario da divinità fluviali. Le ninfe del fiume, se non fai troppo casino, se ne stanno in disparte disturbate, ma ti lasciano tuffare e nuotare, fin sotto la prima cascata.
Un altro giorno puoi prendere con l’auto la strada alta per Zeri. Il navigatore ti porta a sperdere e infatti ti perdi. Chiedi. Ti dicono di tornare indietro, dopo una curva, sulla destra c’è una strada che scende. Sulla curva c’è un vecchio cartello di legno a forma di freccia con scritto “Cimitero”. Imbocchi la strada che scende, facendo gesti apotropaici e arrivi in vista del torrente Gordana. Parcheggi la macchina prima, perché c’è una frana recente e cominci a risalire il torrente. Ci vogliono quarantacinque minuti buoni e calzari sportivi altrettanto buoni. E finalmente arrivi agli Stretti di Giaredo! In un canyon lungo e stretto ci sono cinque vasche. Il sole le illumina poco o niente e occorre saper nuotare perché sono profonde. Meglio se ti intruppi in un’escursione organizzata: costa, ma ti forniscono guide e una muta subacquea. Mi sono tuffato solo nella prima vasca per la foto, per dire l’ho fatto ed era già fredda da smettere. Gelida. Si era in agosto, ma avevo solo il costume da bagno e non molto coraggio. Assicuro però che è bellissimo e solo tornare indietro è stato un rimpianto.
Se ancora rubi un po’ di tempo al tempo -e ne vale la pena- sali verso il Passo del Cirone, in Valdantena. Ti lasci dietro i paesi di Molinello, Casalina, Groppodalosio e arrivi a Pracchiola, un paesino di case e strade di pietra. C’è un cartello che dice “Vietato” e un altro che fornisce le indicazioni del percorso. È che c’è una frana che bisogna superare. Da queste parti il paesaggio muta ogni anno, sia perché l’uomo ormai lo diserta sia perché la natura, affascinante e impressionante, ha comunque il sopravvento. Passi di fianco alla chiesa, poi sotto una volta, arrivi ad un bivio e prendi per un sentiero stretto, ma in buono stato. Cammini un bel po’, mezz’ora, quaranta minuti, in alto, lungo i fianchi del corso del Magra, poi scendi nel fiume e ci sei. Una grande pozza d’acqua percossa da una cascata di trenta metri: il Piscio di Pracchiola. Lo scenario è mozzafiato e l’acqua pure. Da infarto. Purtroppo il sole era ancora dietro il costone roccioso ed i nuvoli densi. Forse ad arrivarci più tardi, verso le tredici o subito dopo, con il sole a picco sulla vasca d’acqua, chissà. Un tuffo veloce trattenendo il fiato si poteva anche fare. Entrare nella favola. Quando te ne vai, non dimenticare di riempire una bottiglia d’acqua o una boraccia -con una sola erre- dalla fonte in pietra di Pracchiola. Fresca e leggera come dovrebbe essere l’essenza di cui siamo fatti.
Al bivio per la cascata, una mulattiera si arrampica invece sul monte alla riscoperta degli Scaleri, la vecchia Via Lombarda. I muli, carichi di sale e merci, nell’ascesa defecavano per lo sforzo e lo Zio, un parente acquisto alla lontana che sa tutto, dice, sbrattando la pipa, che ancora restano le tracce di questo antico passaggio e di quella fatica di uomini e bestie. Dice anche, lo Zio, che sotto Puntremal c’è una condotta sotterranea, ricavata per farvi passare un corso d’acqua con funzioni di fognatura per i palazzi del borgo e che era molto antica, quando ancora negli altri paesi queste cose non le avevano, nemmeno le pensavano.
E poi con voce pacata da anni e conoscenza -da Pontremoli aveva lavorato a Milano per tornare, pensionato, al paese- dice che bisogna comprare al Bar degli Svizzeri in Piazza, gli Amor, dolcetti tipici di crema burrosa tra due wafer: almeno ventiquattro per fare una degna figura da invitati. Perché ventiquattro, chiediamo. Perché vanno a dozzine, risponde. E chissà perché andranno a dozzine, come fossero rose. Forse perché qui le famiglie sono ancora credenti e numerose. Sei figli, otto talvolta. Dice che un tempo i montanari, i pastori e i campagnoli di quelle parti partivano per vendere il loro, prodotti della terra e anche libri, e quando tornavano mettevano incinta le mogli per poi ripartire. E tornavano e ripartivano spesso. Poi si fermavano e aprivano botteghe sostenute da una mutualità di mercato. Io compro da te, tu compri da me. Anche oggi molti Pontremolesi lavorano in Liguria, in Emilia, in Lombardia e si vede gli sarà rimasta quell’antica abitudine, tra l’andata e il ritorno. Le passioni sono passioni. Del resto c’è una frazione pontremolese che si chiama Toplecca. E, siccome è gente precisa, c’è Toplecca di sopra e Toplecca di sotto. Giuro che è vero. E anche se non è esattamente in quel modo che nascono i bambini, è pur sempre un buon inizio e poi, si sa, da cosa nasce cosa.
È bella questa dimensione popolare di una città di tradizioni e viva di poco più di settemila abitanti. E quella naturale dei fiumi dove puoi fare il bagno. Pontremoli sorge alla confluenza del Verde con il Magra e Pontedera dell’Era con l’Arno. E un tempo doveva essere così anche da noi: sull’Arno, ai bagni Rosina o sull’Era, alla Cartiera. Il mare dei poveri, della gente comune, a portata di mano. Per tutti. E, mentre scrivo queste parole infingarde nel tempo rubato -buona parte della vita si deve a parole infingarde e tempo rubato- mi sale un moto di rimpianto. Non rimpiango il passato remoto, ma il futuro presente. Meritava da noi cose migliori. Buona domenica e buona fortuna.
Pontedera, 6 Ottobre 2019
Libero Venturi