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venerdì 11 ottobre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

​Scilla & Cariddi, un sogno di mezza estate

di Marco Celati - giovedì 23 luglio 2020 ore 10:22

Ci sono giorni buoni e giorni meno buoni. Quel giorno non sapeva dire di preciso com’era, se buono o meno. Dopo un inverno estenuato, ma non freddo, uggioso, arrivava questo giugno incerto: sole e nuvoli, i primi caldi improvvisi. Per fortuna un po’ di vento. A bordo vasca aspettava la voglia di tuffarsi. Gli piaceva nuotare. Gli riusciva anche, aveva imparato da sé: non nuotava forte, ma a lungo e non si capiva come mai, dato che aveva un fisico da merlo sulla brinata. A nuotare si è soli. Come l’atletica e le campestri che faceva da ragazzo, sport solitari. Con il nuoto c’è anche meno gente. All’inizio fanno male la spalla ed il collo, fanno male i pensieri. Poi tutto si scioglie, artrosi e pensieri. Se prendi il ritmo giusto, tra respiro e bracciata, puoi nuotare a lungo e, in mare, andare lontano. Ma il mare nasconde insidie: viaggi, villeggianti, meduse, natanti. E nuovi leviatani, paure insondate. La piscina in fondo è una ridotta di mare e qui non c’erano neanche gli utenti sguaiati e rumorosi o i fissati mangiavasche che ti travolgono, nuotando. La piscina era sua, quattro corsie di cinquanta metri. Così, lunga e stretta, se l’era fatta costruire apposta sulla sua terra, accanto alla casa sulle colline in Valdera. A volte venivano i figli, ormai grandi, a volte la compagna, a volte qualche amico. Più spesso era solo. Regolarmente venivano quelli dell’Uisp a controllare la chimica e le pompe; aveva un contratto con loro.

Tutto bene. Il sole esce dalle nuvole che il vento muove e l’acqua riprende il colore del cielo e il fondo chiaro della vasca. È ora. Si tuffa, riemerge e comincia: sinistro, destro e respiro, sinistro, destro e respiro, sinistro... Segue la linea nera, a centro corsia, è il giorno buono per battere il record, vuole fare cento vasche. Sono cinque chilometri, così, correnti a parte, può dire, a questa età, di aver attraversato lo stretto di Messina, come ha fatto un suo amico, nuotatore di mari. E lui comodamente in piscina, marinaio di acqua dolce, che però sostiene meno di quella salata. Del resto non andava più da nessuna parte, in ferie. A parte il fatto che era pensionato con una pensione accettabile e quindi in ferie a vita, andava bene così: la sdraio, l’ombrellone, il lettino e sullo sfondo la campagna toscana. Al mondo che c’era di meglio? Alle sue spalle la casa di mattoni. Una vecchia colonica, acquistata a suo tempo a buon prezzo e ristrutturata. Un porticato dove mangiare all’aperto o restare a guardare la pioggia e le nubi passare come i pensieri, il pomeriggio ascoltando le cicale frinire. O, la notte, osservando luna e stelle, mentre cantano i grilli. È piacevole la cantilena della natura, non è ostile la vita, si possono chiudere gli occhi e sognare.

Tenere i conti delle vasche è un problema, ricordarsi le pari e le dispari aiuta nel conteggio: respirando dalla parte della valle sono dispari, al ritorno, dalla parte della casa, le pari. Dopo le prime dieci si ricomincia da uno e si tiene a mente. Qualche volta si respira sulla sinistra per sbloccare la cervicale. La fatica si fa sentire e va gestita. La respirazione non va forzata: quanto basta, in sintonia con le bracciate che girano in sincrono. Si sente la cadenza ripetuta. Le gambe unite sul pelo dell’acqua e i piedi in movimento continuo, leggeri, a fare da timone. La testa non si solleva dalla superficie, gira appena per consentire il respiro e resta in linea con il corpo che scivola via. Tutto in scioltezza, naturale, lo sforzo va contenuto, ottimizzato, come camminare. Poi arrivano i pensieri, distraenti: sei in una gara di fondo, piazzato fra i primi, tieni la posizione, avresti forza per andare, ti contieni, aspetti il momento, guardi la barca d’appoggio che rimane sulla destra, da bordo gridano qualcosa, alzano un cartello: sono due chilometri e mezzo, metà gara, è ancora presto, c’è tempo per forzare bracciata e gambata. Aspetta, va bene così.

Alla segreteria di Architettura, in piazza San Marco, c’era la fila. Il sessantotto era l’anno dei creativi, dei rivoluzionari e degli illusi. Sarebbe voluto andare a Lettere o Filosofia, anche Storia, insomma qualcosa del genere di tipo umanistico per cui si sentiva portato. Ma meno male aveva dato retta, all’ultimo momento, al professore di artistica -disegni bene- ed era stata Architettura. In fondo meglio così. L’Università era in fermento, un’occupazione continua come la lotta dura e senza paura. Paura però ne aveva, bisognava averne, e durante una manifestazione con annunciati e provocati scontri se la dette a gambe sui Viali. Poliziotti da una parte e studenti dall’altra. Anche la società era in fermento. Di sinistra va bene, ma non il demone della politica, prima mi laureo. Lavorava anche. Magari, in linea con il clima sociale del tempo, aveva lasciato l’indirizzo compositivo per quello urbanistico. Si era laureato. All’inizio fu dura, impieghi saltuari, con la compagna ebbero due figli, non si sposarono mai. Un po’ ribelli rimasero sempre, era per generazione. Poi venne il concorso in Comune. Non vinse, però per il primo classificato si liberò un posto nel capoluogo, il secondo fu richiesto in Provincia. Cosa vuol dire a volte la gloria consolatrice del podio, il terzo era lui e fu architetto in Comune. Con l’avanzare del tempo e dei pensionamenti, dirigente del settore urbanistica. Piano strutturale, piano regolatore della città e pianificazione del territorio per l’Unione dei Comuni. La paga divenne buona, importanti gli incentivi. Aveva contribuito ad assecondare, ma regolare la crescita. Poi i tempi erano cambiati. Imprese che aveva conosciuto, protagoniste dei passaggi di sviluppo, stavano chiudendo, sulla via del fallimento o già fallite. A volte incontrava qualcuno che gli raccontava quello sconforto e si fermavano a rimpiangere il loro tempo, come fanno i vecchi. Allora si chiedeva se era colpa sua, aver pensato ad una città che cresce e, comunque, se ne sentiva in colpa. Provava un sordo dispiacere, vendendo quei corpi di fabbrica lasciati in mezzo a un cantiere chiuso o tra le erbe alte di una zona industriale, come navi abbandonate in mezzo alla tempesta. Lui poi era andato in pensione. A parte l’età raggiunta e gli anni di lavoro, non c’era più gusto nell’amministrare la realtà senza immaginarla. La crisi è questa, sono le cose senza immaginazione. Magari altrove, nel mondo sono opportunità. Bisognava saperlo.

Però gli era capitata quella casa dismessa di contadini, sulle colline sopra la città, un bel pò di terra intorno, ulivi. Ci voleva coraggio e qualche soldo. Non disponeva granché di entrambi. Ma i tassi erano bassi, grazie all’Europa, il Paese rimesso appena in sesto e così divenne proprietario di casa, di terra e di un mutuo. E siccome dice che la fortuna aiuta gli audaci, quelli dietro l’angolo pronti a riceverla, ci fu anche il contributo straordinario della sorte. Giocava la lotteria e si raccomandava a San Faustino, come fosse San Gennaro, come fosse esistito davvero e fossero proprio sue le reliquie mortali, giacenti nella teca del Duomo. E San Faustino, chissà perché, forse stanco di essere messo in discussione e cambiato di data nel calendario gregoriano, la grazia alla fine gliela fece: un premio di consolazione di trecentomila euro. Ne parlarono tutti i giornali di quella fortuna inaspettata di un loro concittadino, per di più dirigente comunale. Un colpo di culo. Un destino tanto propizio, quanto immeritato, ma tant’è. Perché la fortuna in realtà aiuta solo i fortunati. È la sfiga che accompagna i bisognosi. Così, facendosi una ragione di quell’invidia sociale, del resto pessimo succedaneo della coscienza di classe, con la liquidazione e, sopratutto, con la vincita, aveva estinto il mutuo e realizzato il suo sogno: la casa in collina e annessa piscina. Come i signori o gli artisti di successo. Poteva leggere, scrivere, nuotare. E, a volte, perfino passeggiare su quelle colline “e le mani tenersele dietro la schiena”.

Sulla barca il cartello esposto riportava il numero quattro, da un megafono stavano gridando ultimo chilometro. Guardò i compagni di viaggio. Venti vasche ancora, dopo ottanta già fatte. Le braccia pesavano, il fiato premeva nel petto, ma andò in progressione, diminuendo le pause e mulinando con frequenza più continua le braccia, senza forzare ancora con le gambe. Si stava staccando dal gruppo, con i primi, gli era accanto l’amico con cui si era iscritto alla traversata dello Stretto. Lui respirava sulla destra, l’amico sulla sinistra. Così si incrociavano gli sguardi, restavano in contatto e in controllo reciproco. A meno dieci vasche, cinquecento metri, chiese e ottenne come un cenno d’intesa: vado. Cominciò a introdurre la gambata, spinse più di braccia, sotto, alzando le spalle dalla superficie. Gli sembrava di tirarsi sull’acqua. Gli ultimi cinquanta metri pensava alla terra che era prossima e la gente ad aspettare. Ma sembrava non arrivare mai e, quando le braccia non reggevano più e il respiro gli scoppiava nel petto, finalmente toccò, sfinito, il bordo vasca. Terra. Restò in piedi nell’acqua, aspettando che la testa smettesse di girare e il cuore rallentasse il suo battito. Poi si lasciò galleggiare per sciogliere i muscoli contratti. Quando fu in grado, si tirò su e si riversò sul lettino, riparando la testa dal sole. Cento vasche, cinque chilometri. L’impresa era compiuta. A Scilla e Cariddi era scampato.

Poi, quando l’ossigeno riprese ad alimentare correttamente il cervello, gli tornò a mente la sua vita. Ad Architettura non si era mai laureato: solo ventisette esami. Nel ‘68 il demone della politica si era impossessato di lui, accompagnando, nel bene e nel male, la sua esistenza. Due figli li aveva, la cosa migliore: si era sposato, ma era divorziato. Pensione, la minima, non si arrivava alla fine del mese. Casa e terra non ne possedeva. San Faustino non gli fece mai la grazia, perché non credeva, perché non gliel’aveva nemmeno chiesta e, soprattutto, perché non aveva mai giocato alla lotteria. Il suo amico lo stretto di Messina l’aveva attraversato davvero. Invece lui, a Scilla e Cariddi non era scampato affatto, però cento vasche le aveva fatte lo stesso, solo che la piscina era quella Comunale. E meno male che c’era.

A volte si dice la vita e la sorte: basta cambiare qualcosa, un nonnulla, ed è tutto diverso. A ognuno resta la vita che ha e ognuno ha la vita che resta.

Pontedera, Giugno 2018

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati