Le parole vanno scelte, non contate
di Chi mette al centro la persona - lunedì 31 gennaio 2022 ore 07:30
“Accidenti quanto parli, dovresti fare l’avvocato”, “che parlantina, secondo me da grande farà l’avvocato”. Cito due espressioni assai abusate, che contribuiscono a creare uno dei luoghi comuni più diffusi sulla professione che esercito ormai da quindici anni: che il numero delle parole pronunciate siano più importanti e più efficaci della loro scelta attenta e ponderata.
Processo, sentenza, testimone, udienza sono parole specifiche, che sentiamo solo all’interno di uno studio legale e che richiedono spiegazioni tecniche, necessarie per chi si trova ad affrontare una vicenda giudiziaria; ma ci sono altrettante parole che aprono mondi interi dentro cui abitano le vite delle persone ed il cui errato utilizzo può condizionare la scelta di una strada piuttosto che un’altra.
Diritti, giustizia, difesa e vittoria sono le parole che più spesso accompagnano e definiscono le richieste di chi si rivolge a me, che invece sono solita usarne altre: ascolto delle necessità e soddisfacimento dei bisogni; realizzazione delle aspettative, miglioramento della vita, conquista della serenità, guadagno di tempo liberato, incontro di interessi, consapevolezza delle scelte.
Le seconde non sono in contrasto con le prime, ne sono anzi la loro declinazione più importante, quella che si ottiene spostando lo sguardo dalle carte alle persone.
Non sarebbe infatti possibile per me esercitare la mia professione senza prestare particolare attenzione ad aspetti specifici delle persone che mi siedono di fronte, in apparenza poco rilevanti per rispondere alla loro “domanda di giustizia”. In particolare cerco sempre di capire che cosa realmente le muove, quale sia il tarlo che mina la serenità della loro vita, se un sentimento o un reale pregiudizio, se ne facciano “una questione di principio”, come spesso mi sento riferire, anche in toni molto accesi, ovvero se la lesione subita necessita concretamente di essere rimarginata; e ancora se chi mi chiede di assisterlo ha bisogno di trovare in me la forza che compensi la propria fragilità, la spinta per reagire alla rassegnazione (come troppo spesso capita ad esempio alle donne vittima di violenza), ovvero se mi vedano come la fonte da cui bere per alimentare il proprio rancore, lo strumento che armerà le loro mani, come negli accesi conflitti intrafamiliari o nelle vicende legate alle liti di vicinato.
E’ questo il momento in cui mi sento investita di maggiori responsabilità, perché l’esito della mia “indagine” dipende proprio dalle parole che scelgo di utilizzare: parole di pace per disinnescare micce che, se esplodessero, avrebbero come unica conseguenza sofferenza, disordine e lunghi tempi di ricostruzione; oppure parole di forza, per aiutare chi lo ha perso a ritrovare il coraggio per scalare montagne che sembrano insormontabili. In ogni caso sempre parole di verità, che mettano al centro le persone e la loro vita, quella che si svolgeva fuori dalle aule di tribunale prima della nascita del conflitto che li ha portati da e che lì tornerà a svolgersi, dopo che la vicenda giudiziaria si sarà conclusa e che dal tribunale saranno usciti, possibilmente con meno cicatrici di quando ci sono entrati.
Ilaria Fiori
Chi mette al centro la persona