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Attualità venerdì 18 settembre 2015 ore 19:40

Il perdono unica arma contro la crudeltà dei lager

Mauro Betti è testimone straordinario di una delle pagine più nere della storia, non solo per i suoi racconti, ma anche per il suo messaggio



POMARANCE — "In ospedale dopo la liberazione dal campo mi trovai di fronte un capò dal quale avevamo subito soprusi e maltrattamenti. Lo guardai e non riuscii a dire nulla. Però provai una enorme pena per lui. Mi fece compassione. Pensai: come farà lui dopo tutto il male che ci ha fatto a continuare a vivere? Come farà a guardare i suoi figli se ne ha già, o a formarsi una famiglia dopo tutto quell'orrore?"
E' la testimonianza sconvolgente eppure eccezionale di un sopravvissuto ai campi di sterminio, Mauro Betti, che lancia un messaggio forte di perdono e di amore, come unica arma per fermare la violenza e la guerra nel mondo.

Mauro, 93 anni, originario di Castagneto Carducci e oggi residente a Cecina, è stato a Larderello lunedì 14 settembre per inaugurare la mostra "La liberazione dai campi nazisti", visitabile fino al 30 settembre al circolo del villaggio geotermico, allestita con dettagliati pannelli di proprietà del signor Betti che ripercorrono quegli anni e promossa dall'amministrazione comunale di Pomarance.

Betti, che ha passato la terribile esperienza della deportazione in ben 3 campi in Germani e Polonia, è un testimone straordinario: ascoltare dalla sua voce quei racconti lucidi di crudeltà subite sulla sua pelle accompagnati da un messaggio di speranza, ha commosso ancora una volta la platea. Perchè non c'è rancore nella sua vita vissuta, ma "l'augurio ai posteri è che non ci siano più guerre". "Perchè è successo tutto questo? - spiega - Perché c'era una guerra. La guerra è stata inventata dall'uomo a suo scapito e non va più fatta. Come si fa ad evitarla? Bisogna volersi bene gli uni con gli altri. Io non nutro odio nè vendetta. Ho perdonato chi mi ha fatto quelle atrocità. Senza perdono non avrei potuto sopravvivere a tanto dolore. Vivo tranquillo perchè ho perdonato".

L'amore contrapposto all'odio e alla violenza, subita in quei campi dove erano in atto una spersonalizzazione ed una disumanizzazione assolute. Che iniziavano dalla spogliazione totale dei deportati, come racconta Mauro: "ci toglievano tutto, abiti, gioielli, biancheria e poi anche il nome; dopo un giorno dalla spogliazione abbandonati in una baracca,  avveniva la vestizione". "Diventavamo un numero di matricola cucito sui vestiti a righe, accanto al triangolo con il colore che indicava il motivo per cui eravamo lì e la sigla del Paese di provenienza - spiega - oltre ad una rasatura in testa larga tre centimetri, così anche se fossimo scappati e ci fossimo cambiati le vesti, chiunque poteva capire che provenivamo dai campi".

Fra gli episodi narrati da Betti, tra freddo, fame, malattie, soprusi, botte, durati molti mesi, impossibili da restituire nella loro intensità, colpisce il racconto della doccia ai quali periodicamente erano sottoposti, emblema di una crudeltà gratuita. "Avevamo il tifo petecchiale, eravamo ricoperti di pidocchi che davano un fastidio tremendo - racconta - ogni tanto i tedeschi ci spidocchiavano e venivano a prenderci per farci la doccia. Ma non era una cosa poi tanto gradita. Ci facevano spogliare in una baracca, nudi sulla neve ci portavano alle docce. Mentre eravamo dentro i tedeschi si divertivano ad alternare getti di acqua gelida ad acqua bollente. Era un martirio. Ne uscivamo scottati e sconvolti. Poi a piedi, completamente bagnati sulla neve, senza nulla per asciugarci, si attraversava tutto il campo e si tornava alla baracca, che era però piena di pidocchi, per vestirci. Ma molti non sopravvivevano".

Racconti terribili che parlano di montagne di cadaveri, bastonate, giornate vissute senza sapere dove ci si trovava e che giorno era, notti passate a dormire in 5 in un letto, lingue incomprensibili, per la fame mangiare le viscere crude di un animale, assurde punizioni come rotolare nudi nelle neve per 30-40 minuti, persone che ti morivano continuamente intorno, compreso il caro amico di Mauro e compagno di prigionia Martino.
"Quei campi erano così terribili che io ho invocato tanto la morte - racconta - non si poteva vivere in quegli ambienti, così malvagi, così privi di sensibilità, così privi di ogni cosa umana".

Mauro, quando nel '45 riuscì a fuggire dai campi durante un trasferimento, si nascose solo e senza nulla nei boschi; nei giorni della liberazione fu trovato e portato dagli americani in ospedale. A 23 anni pesava 30 chili. Riuscì, a differenza di molti deportati che morirono durante la liberazione per aver ingerito il cibo dopo mesi di fame, a rieducare lo stomaco. E dopo quasi sei anni riabbracciò la madre a Castagneto, della quale non aveva avuto più notizie, così come la madre del figlio. L'aveva lasciata quando era partito per il fronte ad appena 17 anni. 

Non raccontò alla sua famiglia quanto aveva subito. Trovò la forza di parlare solo anni dopo. "Forse molti non mi crederanno, penseranno che racconto delle novelle perchè non è possibile che un uomo possa trattare il suo simile come siamo stati trattati noi nei campi - dice Betti - Se noi sapremo amarci l'uno con l'altro le guerre non ci saranno più perchè arriverà la pace, la fratellanza; se i popoli sapranno adottare l'agape tutto questo non succederà più". Come nel titolo del suo libro Mauro si augura che "l'oscurità trascorsa illumini i posteri: vogliamo che i giovani traggano da queste esperienze che si raccontano perchè si sono vissute il motivo per vivere in pace".

Parole forti che pesano come un macigno in una Europa e in un mondo dove le guerre, i soprusi, la violenza, la fame, l'odio 'riguardano' ogni giorno migliaia di persone.

Alessandra Siotto
© Riproduzione riservata


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